LAVORO

La precarietà non è un destino.

In Italia il 14% dei lavoratori a tempo indeterminato percepisce un salario inferiore a quello stabilito dal contratto collettivo.  

I salari bassi rimangono un enorme scoglio a una vita dignitosa, un fenomeno che colpisce in misura maggiore donne e stranieri. Un problema a cui si aggiungono assenza di tutele, controlli, organizzazione, otto ore lavorative, un giorno di riposo. Aree di precarietà sociale e lavorativa gravemente acuite dalla pandemia. Sembrano quasi rivendicazioni del secolo scorso a cui è possibile rispondere rafforzando il sistema ispettivo per scoraggiare abusi e irregolarità.
Dobbiamo far vivere gli accordi sottoscritti dal Comune di Torino: gli enti appaltatori, compresi quelli pubblici, dovrebbero prevedere dei meccanismi utili a penalizzare chi risparmia sul lavoro, in termini di posti, salari e, soprattutto, sicurezza, per mantenere bassa la proposta economica.

Questo “risparmio” si traduce, infatti, in un problema per tutta la città: meno stipendi, meno lavoro, famiglie in difficoltà e quindi maggiori costi sociali, soprattutto a carico di soggetti deboli e stranieri.

La diffusione dello smartworking ha scaricato un peso fortissimo sulla vita delle donne, la conciliazione vita-lavoro è un tema che interessa solo una parte. Dobbiamo raggiungere l’obiettivo della condivisione genitoriale e oggi il welfare non ha strumenti per permettere alle donne di liberare le proprie energie.

Se vedessimo le donne più partecipi, il paese ne guadagnerebbe in termini di crescita economica, 7 punti di Pil in più secondo la Banca d’Italia.
Nei quartieri più difficili c’è un lavoro culturale importante da fare sulla questione di genere e l’emancipazione, indipendentemente se parliamo di donne sposate o madri single.
Possiamo partire da corsi pratici e di messa in rete con altre persone, con l’obiettivo di allargare le loro reti sociali e farle sentire maggiormente autonome, anche nei casi di culture maggiormente maschiliste.

Ma non basta. Le imprese vanno richiamate alla loro funzione sociale.
Il Comune può sottoscrivere accordi dove sia stabilito chiaramente che le risorse del PNRR verranno indirizzate alle imprese che hanno un’idea di futuro, di qualità dell’occupazione, di tutela della forza lavoro locale e attenzione all’ambiente su cui si costruiscono plessi industriali, anche attraverso il coinvolgimento attivo di lavoratori e dei soggetti territoriali che sono interessati dalle scelte di impresa.
Le vicende Stellantis – Gigafactory ed Embraco sono casi paradigmatici di una politica che non ha più strumenti culturali e normativi per dialogare con grandi player globali, dotati di capitali immensi, slegati dalla dimensione e dall’interesse territoriale, e mossi dall’obiettivo di massimizzare il valore degli azionisti. Una lettura “salvifica” del mercato, ormai superata, che ha caratterizzato gli ultimi trent’anni.

Torino deve recuperare la sua vocazione di città produttiva, dentro questo millennio e non più con lo sguardo nostalgico al passato. Passata la “sbornia” turistica, va rivisto il modello di sviluppo per tornare a essere una città che richiama il lavoro, tenendo conto delle specializzazioni territoriali, come si sta già facendo nei progetti del Manufactoring Center e del polo aerospaziale. Le importanti competenze e realtà sul digitale devono essere, anche alla luce del PNRR, un altro tassello fondamentale.

Torino può aumentare la capacità attrattiva di nuove competenze e conoscenze potenziando la rete di servizi per le famiglie e per i bambini, garantendo trasporti efficienti, scuole moderne e inclusive, burocrazia snella, ambiente vivibile e dinamico. Aspetti che impattano sulla qualità complessiva della vita, oggi fondamentali nella scelta del luogo di lavoro.
La pandemia ha determinato anche un grande cambio culturale portato dallo smartworking, che ha interessato imprese e, soprattutto, pubblica amministrazione. Potrà esserci un sempre maggiore scambio tra luoghi lavorativi “tradizionali” e spazi di smart e co-working di cui va fatto un censimento puntuale e che potranno essere potenziati, come già avvenuto in diversi casi, con spazi e sedi da convertire in luoghi multifunzionali.

L’amministrazione comunale ha al suo interno grandissime competenze, ma – come in tutto il paese – è composta da larghe fasce di dipendenti con età media molto alta, abituati a operatività consolidate e routinarie, che improvvisamente sono state proiettate in una dimensione sconosciuta e destabilizzante psicologicamente.

Il primo passo sarà investire risorse nella formazione per dotare i lavoratori pubblici delle competenze digitali necessarie. Oltre a quella tecnica, saranno fondamentali anche nuove competenze relazionali: le dinamiche interpersonali sono inevitabilmente cambiate e il lavoro del futuro richiederà nuove capacità.

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